
Eravamo un
gruppo scombinato -le parenti di Manuel, la mia ex prof, tre ragazzi
musicisti come me e una signora chiamata per leggere le poesie - e
soprattutto noi ragazzi ci siamo ritrovati catapultati nella
situazione senza conoscerla molto. A dir la verità quello che sapevo
io all’inizio era che avrei dovuto cantare, e tanto mi bastava, ma
poi l’esperienza si è dimostrata essere davvero molto di più.
C’erano
carcerati lì nel salone, è vero, ma non li ho visti. Potrei
sembrare banale, ma ho visto delle persone,
e nei giorni successivi mi ha fatto quasi male notare come, per
molti, questa non fosse una cosa scontata. Comicamente, la reazione
che mi ha colpito di più è stata quella di una bambina di circa
otto anni ad un altro spettacolo di qualche sera dopo. Il discorso
del carcere in qualche modo è uscito mentre lei era presente, e il
suo visino da bambolina ha assunto un’espressione sullo
schifato-contrariato, prima di dire: “Non avreste dovuto andare a
cantare, loro hanno fatto delle cose brutte e non si meritano più
niente.”
Io l’ho
guardata e ho risposto semplicemente “È più complicato di così”,
ma avrei voluto spiegarle tante cose. Avrei voluto che vedesse tante
cose.

O quel
ragazzo tatuato che non si risparmiava i “porca putt…”
entusiasti ad ogni pezzo di fisarmonica, e si girava in continuazione
a sorridere ad un altro uomo mimando con le labbra: “Sono bravi!”
O quella
donna in t-shirt verde fluorescente che ha applaudito entusiasta dopo
ogni poesia e sul finale di Green eyes dei Coldplay.
O il momento
in cui mi hanno vista dire Buon compleanno al mio amico chitarrista e
si sono messi tutti a cantare “Tanti auguri a te”, con lui che
sorrideva tra l’imbarazzo e la spettacolarità della scena.
Oppure la
luce negli occhi dell’uomo che mi ha chiesto il microfono, alla
fine, e accompagnato da due accordi al pianoforte e incoraggiato
dagli altri presenti ha cantato la sua canzone preferita di Vasco.
Ho un po’
sorriso e un po’ pianto mentre le poesie di Manuel scorrevano e
scorrevano, perché in ogni sua poesia era presente la solitudine,
una solitudine che mi sono ritrovata –e ho ringraziato per questo-
a non capire. Una solitudine che ho notato nei volti di tutte quelle
persone che hanno trovato così speciale una cosa per me così
quotidiana: ascoltare dei ragazzi venuti “dalla libertà” che
suonano, trascorrere una giornata a sentire la musica. Perché,
citando Manuel un’ultima volta, “in prigione il problema non è
far passare un anno o un mese, è la giornata che non passa mai”.
Credo che
molti non abbiano idea dell’ambiente che c’è all’interno di
quelle quattro mura che io stessa ho ignorato parecchie volte,
passandoci davanti in auto, e ovviamente non dico di essere
un’esperta, adesso, ma posso essere convinta che non ci sia
abbastanza contatto tra “la libertà” e i carcerati là dentro.
Le persone,
là dentro.
Serena
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