martedì 25 aprile 2017

Mi chiamo Mashud

Questa è la storia di un ragazzo che un giorno, in un posto lontano, all'età che i suoi coetanei italiani vanno ancora a scuola, ha preso una decisione che l'ha portato ad arrivare qui, a Burolo, un lungo cammino che per adesso si è fermato nella casa accanto alla mia.
E' una storia come ce ne sono tante, eppure unica, perché le motivazioni che spingono queste persone che incontriamo quotidianamente fuori dai supermercati, ai posteggi, a vendere rose o a chiedere l'euro sono diverse ma partono sempre da una scelta, quella di andarsene, andare via da dove si è nati e cresciuti e noi vediamo solo il finale di quelle storie, li vediamo qui e non sappiamo nulla di loro, li giudichiamo senza conoscerli.
Ogni storia è diversa e non sono sicuramente tutte belle storie o belle persone, mi piacerebbe conoscerle per poterle raccontare perché è questo che io amo fare.
Una la conosco e forse , parlando un italiano stentato qualcosa è sfuggito, qualcosa si è perso ma, comunque, eccola qui.
Questa è la storia di Mashud, il mio vicino di casa, la lascio raccontare a lui
“ Mi chiamo Mashud, Mashud Mondol, sono nato a Rajsnaht, in Bangladesh nel 1990.
A giugno avrò 27 anni.
Non sono mai andato a scuola e fin da piccolo ho sempre lavorato la terra. In Bangladesh niente è gratuito, studiare costa, curarsi costa, ottenere qualsiasi cosa ha un costo. La mia famiglia, padre, madre, tre fratelli e una sorella, non aveva soldi e nessuno è andato a scuola. Il lavoro è solo lavoro nei campi, si vive coltivando e mangiando quello che la terra ci dà. Io all'età di 10 anni lavoravo sotto un “capo” che mi pagava abbastanza bene così sono riuscito a comprare due mucche alla mia famiglia. All'età di circa 15 anni ho capito che dovevo andare via, avevo sentito che in Libia si poteva vivere bene se si sapeva lavorare e io sono bravo, mi piace lavorare la terra.
La mia famiglia ha venduto tutto, anche le due mucche, per farmi partire e io ho preso un aereo e sono arrivato a Zliten, in Libia e lì ho visto il mare. Non avevo mai visto il mare.
Sono rimasto per circa quattro anni, lavoravo e venivo pagato, mandavo soldi alla mia famiglia e stavo bene. Poi è arrivata la guerra, mi hanno preso tutto, soldi, documenti, anche i vestiti.
Sono salito sul barcone diretto in Italia in maglietta e mutande. La traversata è stata lunghissima, non finiva più, io ero sicuro che sarei morto. Su quel barcone una vita se n'è andata e una nuova è arrivata , io volevo solo raggiungere terra , in qualsiasi luogo, ma a terra.
L'Italia era Lampedusa, la salvezza. Ore e ore in fila per essere identificati, nessuno aveva documenti, soldi, vestiti. Ci hanno dato acqua e cibo, hanno cercato di capire il nostro nome e da dove arrivavamo. Pochi giorni dopo ero di nuovo sul mare, ma questa volta la barca era quella della guardia costiera e sono arrivato a Napoli. L'Italia è lunga e stretta e io l'ho percorsa tutta. Un autobus mi ha portato a Torino. Una grande città, molto diversa dai miei luoghi. Non potevo fare quello che so fare, niente terra da coltivare, solo Hotel e far niente, non mi piaceva. Ma il mio viaggio non era ancora finito e un giorno sono arrivato a Ivrea. Anche qui Hotel e fare niente ma io volevo lavorare, so di saperlo fare bene, il mio lavoro. Ho trovato chi mi ha aiutato. Ora abito sulla collina a Burolo, ho tanta terra da coltivare, pianto ortaggi di questa zona ma anche del Bangladesh, mi faccio mandare i semi, faccio conoscere prodotti che qui pochi conoscono e a me piace cucinare le cose della mia terra. Non so scrivere ma leggo e parlo abbastanza bene l'italiano e continuo ad imparare tante cose, ho molte brave persone che mi aiutano.
Vendo i miei prodotti e questo mi permette di essere autonomo e di aiutare anche la mia famiglia rimasta in Bangladesh. Sono riusciti a comprare un piccolo terreno su cui vogliono costruire una casa, per ora c'è solo il tetto. Io non tornerò più. La mia vita è qui e qui voglio rimanere, c'è ancora tanta terra da coltivare.

Wilma Nicola

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